Il sistema delle fonti di produzione del diritto nell'antico ordinamento giuridico romano
1. Cenni preliminari
L'ordinamento giuridico dell'antica Roma, quale apparato dotato di un alto e
apprezzabile grado di compiutezza e completezza, si fonda su un robusto sistema
di fonti di produzione del diritto.
Diversamente tuttavia dagli ordinamenti giuridici contemporanei, tale sistema
non contempla un rapporto gerarchico tra le varie fonti in guisa che alcune
siano subordinate o sovraordinate ad altre.
Tutte le fonti del diritto sono poste sullo stesso piano: la loro forza
vincolante - come ha opportunamente affermato il professore Giovanni Negri -
risiede nel fatto che essi si basino sul consenso popolare.
Complessivamente, gli elenchi delle fonti di produzione del diritto riportati
nelle opere manualistiche delle Institutiones di Gaio e Giustiniano menzionano
le leges, i plebisciti, i senatoconsulti, gli editti dei magistrati e le
costituzioni imperiali; ad essi bisogna comunque aggiungere i mores maiorum.
2. Le singole fonti di produzione del diritto nel dettaglio
Si cercherà ora di esaminare le singole fonti di produzione del diritto romano
nel dettaglio, al fine di metterne in evidenza tutte le caratteristiche
essenziali e salienti.
2.1 Le leggi (leges publicae)
Sul significato della nozione di legge, il giurista Gaio afferma:
Gai Institutiones, I, 3: ... lex est quod populus iubet atque constituit...
Gai Institutiones, I, 3: ... la legge è ciò che il popolo ordina e stabilisce...
Le leggi integrano difatti deliberazioni aventi contenuto normativo, adottate
dal popolo riunito nei comitia centuriata e ratificate dal senato (sebbene con
lo scorrere del tempo la ratifica dei patres passa a riguardare non più il
provvedimento già assunto bensì la proposta di provvedimento da sottoporre ai
comitia medesimi).
Prima di proseguire nel discorso, è doveroso precisare che le leges di cui si
sta ora disquisendo siano le leges publicae (leggi pubbliche); esse sono infatti
contrapposte alle leges privatae (letteralmente leggi private), statuizioni di
promanazione eminentemente privatistica, integranti quindi le clausole di
qualsiasi contratto di diritto privato.
Il procedimento approvativo delle leggi, quindi, si snoda attraverso vari stadi,
i quali tutti prevedono il coinvolgimento delle assemblee summenzionate ma,
pervero, anche di un qualsiasi magistrato (dal momento che la titolarità del
potere di iniziativa legislativa ossia di presentazione di una proposta di legge
spetta esclusivamente ai magistrati).
I comitia centuriata vengono convocati (sempre da un magistrato, che
nell'ipotesi dell'esercizio della funzione legislativa da parte dell'assemblea è
verosimilmente lo stesso proponente della legge) con apposito provvedimento (edictum,
ossia editto, da non confondere con l'omonima fonte tra breve trattata) in un
giorno distante dalla sua emanazione di almeno un trinundinum (un periodo di
tempo, cioè, comprensivo dello svolgimento di tre mercati - le nundinae - e
quindi ammontante a ventiquattro giorni, atteso che il mercato si tenga ogni
otto giorni) e indicato nel calendario quale dies comitialis (dunque non nefasto
ma neppure fasto se riservato al compimento di altre specifiche attività).
Contestualmente all'emanazione dell'editto di convocazione, è altresì diffuso
(mediante affissione pubblica) il testo della proposta di legge (rogatio)
approntato (e preliminarmente ratificato dal senato, a partire dalla media era
repubblicana): ciò affinché ogni cittadino possa conoscere il suo contenuto e
riflettere sulla posizione in cui determinarsi a riguardo.
Nel giorno stabilito, alla mezzanotte, il magistrato convocante prende gli
auspicia, ossia interroga le divinità onde accertare la loro favorevole
disposizione all'espletamento degli adempimenti comiziali; all'esito favorevole
di simile operazione, dunque, egli rivolge al popolo in modo solenne l'invito a
deliberare.
Si passa così alla votazione.
Gli storici dell'epoca tramandano che la modalità di voto resta fino alla fine
del terzo secolo a.C. quella orale: ciascun membro dei comitia è chiamato a
formulare il proprio intendimento innanzi ad appositi funzionari, i rogatores,
deputati a segnare tanto le posizioni favorevoli quanto quelle contrarie; una
serie di leggi che si succedono a partire dal 139 a.C. (le cosiddette leges
tabellariae), tuttavia, instaura gradualmente il voto scritto e segreto, da
fornire attraverso la deposizione di una tavoletta cerata (tabella) -
contrassegnata dall'abbreviazione U (stante per la locuzione uti rogas, ossia
"che si approvi") in caso di orientamento favorevole - o da quella A (stante per
la locuzione antiquo, ossia "desidero mantenere le cose nella situazione
attuale") in caso di orientamento contrario - in una piccola urna (cista), sotto
il controllo e destinato allo scrutinio di altri funzionari, rispettivamente i
custodes e i diribitores.
Una volta approvate, per diventare esecutive, le leggi sono sottoposte alla
ratifica del senato (almeno fino alla media era repubblicana, allorché i patres
esercitano il potere di ratifica sulle proposte e quindi l'approvazione
comiziale rende la legge subito esecutiva).
Dal punto di vista strutturale, ciascuna legge si compone di una parte iniziale
(praescriptio), di una seconda centrale (rogatio, per traslato) e di una terza
conclusiva (sanctio).
La praescriptio contiene tutte le indicazioni non essenziali relative all'iter
seguito dalla legge (ad esempio, il nome del magistrato proponente e il giorno
di riunione dei comizi).
La rogatio reca il dettato squisitamente normativo.
La sanctio compendia l'insieme delle clausole tendenti ad assicurare il rispetto
del dettato normativo e le disposizioni di coordinamento con le altre leggi.
Ogni legge viene designata con il nomen gentilicium (e talvolta anche con il
cognomen) aggettivizzato del magistrato proponente e l'indicazione della materia
regolamentata (si guardi - giusto per offrire qualche esempio - alla Lex
Hortensia de plebiscitiis o alla Lex Valeria de provocatione).
In realtà, tuttavia, le prime leggi pubbliche contemplate dall'antico
ordinamento giuridico di Roma sono le leges regiae, così definite perché
presumibilmente proclamate dal rex innanzi all'antica assemblea dei comitia
curiata a seguito di una preventiva approvazione senatoria (in virtù di un
meccanismo verosimilmente analogo a quello coinvolgente il senato e i comitia
centuriata nella fase storica repubblicana).
Possono poi individuarsi anche le leges datae, regolamenti di carattere
amministrativo emanati in modo unilaterale da un magistrato per disciplinare
tutti gli ordinamenti periferici (colonie, municipi e province).
Bisogna però accennare anche alle leges duodecim tabularum (ossia "le leggi
delle dodici tavole"), che - a dispetto della denominazione - sono sì
statuizioni pubbliche ma non risultano quale frutto di un procedimento
articolato tra assemblee comiziali e senato bensì costituiscono il risultato di
un'elementare regolamentazione dei rapporti sociali tra i membri dell'antico
ordinamento giuridico romano.
La paternità delle leges duodecim tabularum è dibattuta nella critica moderna e
contemporanea: alla dottrina tradizionale (tuttora comunque dominante) - la
quale ha sostenuto che le leggi in questione sarebbero state opera dei
decemviri, deputati effettivamente (come testimonia lo storico Livio) a dar
corso a una profonda riforma delle strutture statali romane - si è recentemente
affiancata la tesi di altri insigni studiosi - tra tutti, Lambert e Pais -
secondo cui esse formerebbero una raccolta via via consolidatasi nel tempo
attraverso stratificazioni successive.
Orbene, chi scrive predilige (e non per comode ragioni di opportunità) le
argomentazioni della dottrina dominante, in virtù del fatto (non trascurabile) -
riferito sempre da Livio - che il testo delle leges duodecim tabularum venga
pubblicato mediante affissione nel Foro - appunto su tavole, bronzee o lignee -
a metà del quinto secolo a.C. dai consoli Valerio ed Orazio subito dopo la
caduta dei decemviri.
Altra, conclusiva, notazione: le leges duodecim tabularum scaturirebbero (e io
propenderei per simile orientamento) dalle continue sollecitazioni dei plebei,
interessati - del resto al pari di tutte le classi sociali più deboli, come ha
messo in evidenza il filosofo Max Weber - ad ottenere una codificazione
finalizzata ad arginare il potere dei ceti più forti: insignificanti sono i
rilievi secondo i quali con le leges medesime non scompaia il divieto di
conubium (ossia di unione matrimoniale) tra patrizi e plebei, in virtù della
considerazione inoppugnabile che i plebei stessi non mirino ad avere un corpo di
leggi esclusivamente a propria tutela ma una base di diritto certo e codificato
da arricchire poi in momenti posteriori con interventi adeguatamente favorevoli.
2.2 I plebisciti
Sul significato della nozione di plebiscito, il giurista Gaio afferma:
Gai Institutiones, I, 3: ... plebiscitum est quod plebs iubet atque constituit...
Gai Institutiones, I, 3: ... il plebiscito è ciò che la plebe ordina e
stabilisce...
I plebisciti sono allora statuizioni di natura legislativa, assunte dalla plebe
attraverso i concilia plebis (le proprie assemblee rappresentative) su proposta
dei propri magistrati (i tribuni plebis, tribuni della plebe); è noto che la
plebe costituisca il ceto di più bassa estrazione sociale di cui si componga la
cittadinanza romana.
Ho consapevolmente adoperato il termine di "statuizioni di natura legislativa",
poiché fino all'emanazione della Lex Hortensia de plebiscitiis (avvenuta nel 287
a.C.) i plebisciti non hanno efficacia di vere e proprie leges publicae e non
sembrano vincolare i patrizi; sarà infatti proprio con l'avvento della legge
menzionata che tale efficacia risulterà compiutamente perfezionata.
Sembra tuttavia che con la Lex Publilia Philonis (rimontante al 339 a.C.),
l'efficacia legislativa dei plebisciti possa raggiungersi previa ratifica
senatoria dei medesimi.
Ogni plebiscito e indicato con il nome aggettivizzato del magistrato plebeo
proponente (ma, dal 287 a.C., si procede con le stesse modalità di citazione
delle leggi): ad esempio, Plebiscitum Canuleium ma anche Lex Canuleia.
2.3 I senatoconsulti
Sul significato della nozione di senatoconsulto, il giurista Gaio afferma:
Gai Institutiones, I, 4: ... senatusconsultum est quod senatus iubet atque
constituit...
Gai Institutiones, I, 4: ... il senatoconsulto è ciò che il senato ordina e
stabilisce...
I senatoconsulti sono quindi provvedimenti di natura vincolante emessi dal
senato fin dall'epoca regia per regolamentare aspetti di pubblica
amministrazione di particolare importanza.
E' da rilevare, comunque, che il carattere di efficacia obbligatoria dei
senatoconsulti si afferma da un punto di vista formale solo in tarda età
repubblicana: sostanzialmente esso è sempre sussistente, in virtù del primario
ruolo rivestito dall'istituzione senatoria romana.
2.4 Gli editti dei magistrati
Gli editti (edicta) magistratuali sono fonti del diritto risalenti al periodo
non anteriore alla metà del secondo secolo a.C. e contemplate anche in una prima
parte della fase imperiale della storia di Roma.
Trattasi di documenti in cui ciascun magistrato, all'atto dell'insediamento,
fissa e rende così pubbliche le linee programmatiche di ispirazione della
propria opera.
Si forma così un autentico vademecum di regole provviste di valore giuridico
ossia di
principi di diritto.
Sotto un profilo squisitamente formale, le disposizioni edittali emanate da un
magistrato non vincolano il successore; praticamente, però, tutti gli editti
ripropongono - sebbene con alcune aggiunte originali - i medesimi principi ormai
consolidati nel sistema (gli storici parlano di edictum tralaticium, ossia "autotramandantesi").
In virtù del continuo ed incessante rinnovarsi della prassi edittale, si forma
nell'ambito dell'ordinamento giuridico di Roma caput mundi un complesso di norme
di creazione e ispirazione prettamente pragmatiche (ius honorarium, così
definito dalla parola honor ossia "carica magistratuale") anziché di natura
astratta e potenziale (ius civile).
L'editto più importante resta comunque quello pretorio (dal momento che il
pretore è il magistrato giusdicente, deputato quindi a dirimere questioni di
controversa soluzione attraverso il plasmo di principi adattabili in modo
peculiare a ciascuna di esse); sennonché - a partire dal secondo secolo d.C. -
riducendosi (fino alla quasi completa sparizione) la sfera di esercizio della
giurisdizione del pretore, l'edictum in questione diviene inevitabilmente
perpetuum (ossia "immutabile") perché va incontro a una cristallizzazione (che
per alcuni studiosi contemporanei - quali il Nicosia - sarebbe la conseguenza di
un fenomeno assolutamente naturale dovuto a fattori storici contingenti, mentre
per altri - capeggiati dal Guarino - rappresenterebbe il risultato di
un'apposita opera di sistemazione affidata dall'imperatore Adriano al giurista
Salvio Giuliano).
2.5 Le costituzioni imperiali
Le costituzioni imperiali (constitutiones principum) sono fonti normative
direttamente promananti dall'imperatore e, quindi, proprie del solo periodo
post-repubblicano della storia di Roma.
E' possibile individuarne quattro differenti tipologie: edita, mandata,
rescripta e decreta.
2.5.1 Gli edicta
Gli edicta (letteralmente "editti") integrano provvedimenti di portata generale,
contenenti istruzioni e linee guida di ispirazione per tutti i magistrati
impiegati nell'amministrazione dei territori provinciali.
La forma, a dispetto della sostanza, non è quella imperativa: piuttosto gli
edicta si presentano come autorevoli consigli generosamente e magnanimamente
offerti dal Princeps.
In un primo momento, l'efficacia degli edicta sembra essere limitata
temporalmente alla durata della vita dell'imperatore emanante; più tardi, però,
pare che il vigore di ciascun editto permanga anche oltre la morte
dell'imperatore emanante.
2.5.2 I mandata
I mandata (letteralmente "mandati") costituiscono essenzialmente delle
istruzioni inviate dall'imperatore ai propri funzionari periferici in merito
alle modalità di conduzione ed esercizio della loro attività amministrativa.
Il contenuto dei mandata ha quindi carattere amministrativo, sebbene talvolta
attraverso tali fonti vengano addirittura introdotti nell'ordinamento nuovi
istituti (quali, ad esempio, il testamentum militis).
Anche il valore dei mandata sembra essere in un primo momento limitato:
temporalmente alla durata della vita dell'imperatore emanante e soggettivamente
rispetto ai soli destinatari; successivamente, tuttavia, anche queste
limitazioni vengono presumibilmente a cadere.
2.5.3 I rescripta
I rescripta (letteralmente "rescritti") in senso ampio sono le risposte fornite
dall'imperatore alle richieste di risoluzione di questioni giuridicamente
controverse, avanzate dal giudice o dalle parti dei processi all'uopo
incardinatisi; nella prima ipotesi si hanno le epistulae, nella seconda le
subriscptiones (entrambe redatte dai funzionari dell'ufficio a libellis).
Il punto di diritto sancito dall'imperatore, inizialmente valevole soltanto per
il caso concreto di riferimento, passa presto ad assumere efficacia per tutti i
casi analoghi verificatisi in seguito; condizione essenziale perché ciò accada è
che i casi rimessi all'arbitrio del Princeps siano veri e non fittizi.
2.5.4 I decreta
I decreta (letteralmente "decreti") rappresentano le sentenze con cui il
Princeps decide extra ordinem (ossia, in modo straordinario e dunque in deroga
alle regole normalmente vigenti a riguardo dell'amministrazione della giustizia)
le controversie sottoposte alla sua cognitio (ossia, alla sua cognizione) tanto
in prima istanza quanto in grado di appello.
A differenza dei rescripta, i decreta non sono opinioni (ancorché giuridicamente
vincolanti) ma vere e proprie sentenze; è chiaro poi che la differenza
sostanziale tra le due citate fonti è pressoché impossibile da tracciare.
Nell'emanazione dei decreta, l'imperatore si avvale di un apposito organo di
natura consultiva - il consilium principis - nato per impulso di Augusto e
destinato ad essere formato prevalentemente da giuristi (ma anche da soggetti
non propriamente "tecnici di diritto") di fiducia dello stesso imperatore; sotto
il regno di Adriano (primo secolo d.C.), il consilium principis - prima
organismo non permanente - si stabilizza e assume la diversa denominazione di
auditorium (mutando anche la propria composizione, ora di soli giuristi e
cavalieri, sempre di fiducia del potere) per poi fondersi in un altro gabinetto
simile, il consistorium, con l'avvento di Diocleziano (terzo secolo d.C.).
3. Conclusioni: il problema della qualificabilità dei responsa prudentium come
fonti di produzione giuridica
Desidero concludere il presente articolo con la trattazione della problematica
relativa alla qualificabilità dei responsa prudentium come fonti di produzione
giuridica contemplate nell'ordinamento dell'antica Roma.
In via preliminare sarà utile segnalare che i responsa prudentium - ovvero
letteralmente i "responsi degli esperti, dei tecnici [di diritto] quindi dei
giuristi - siano le opinioni espresse appunto dai giuristi in merito alla
possibile risoluzione di questioni di controversa interpretazione".
Tuttora, in Italia, i critici discutono sull'ammissibilità o intollerabilità
della funzione "nomopoietica" dei giudici (talvolta su impulso di avvocati o
pubblici ministeri), alla luce del principio di rango costituzionale della
divisione dei poteri, che assegna il ruolo di artefici e creatori del diritto
solo ai legislatori e non anche ai magistrati.
Cercando di non far trasparire la tesi personalmente sostenuta a proposito, mi
sforzerò di focalizzare la mia attenzione sul ruolo degli esperti di diritto nel
sistema della Roma del passato.
Finché il ius risulta costituito dai mores maiorum, l'interpretazione dei
pontefici (i più importanti sacerdoti dell'antica Roma, esistenti in numero di
cinque fin dal periodo regio e aumentati poi a quindici da Silla) - i primi
iuris prudentes o periti - è di fatto l'unica fonte di produzione giuridica.
Ciò è documentato da vari letterati del tempo, tra cui il già citato Pomponio:
Pomp.(D. 1.2.2.6): ... et [iuris] interpretandi scientia... apud collegium
pontificum [erat]...
Pomp.(D. 1.2.2.6): ... così l'arte dell'interpretazione del diritto è propria
della classe dei pontefici…
In seguito, con l'avvento delle (seppur inizialmente rudimentali) codificazioni,
i responsi dei giuristi restano vincolanti - pur non caricandosi di
obbligatorietà - per l'autorevolezza socio-politica della classe pontificale; e
i iudices ma anche i legislatori del tempo non sembrano tanto intenzionati a
discostarsene, avvertendo il peso di orientamenti di tutto rispetto e
sottoponendosi in caso contrario al concreto rischio di dannosissime e
squalificanti figure barbine nell'ambito del contesto socio-professionale
frequentato (ancora oggi, se ribalta o non segue una tesi autorevole sostenuta
da un avvocato o da un qualsiasi esperto di diritto e quella poi si rivela
apprezzabile e fondata, un giudice o un legislatore non ne acquisisce certo un
guadagno in termini di immagine e stima professionale).
Inoltre - come ha sostenuto la professoressa Sergia Rossetti Favento - atteso
che il diritto romano sia molto schematico e non alquanto dettagliato, ai
responsa prudentium deve essere attribuito carattere vincolante quindi valore di
fonti di produzione giuridica in quanto essi fungono da strumenti di
collegamento e connessione tra la realtà fattuale e la teoria giuridica.
4. Bibliografia
Nicosia, Lineamenti di storia della costituzione e del diritto di Roma, Catania,
1971
De Martino, Storia della costituzione romana, Napoli, 1971
Milazzo, Gli ordinamenti giudiziari di Roma imperiale - Princeps e procedure
dalle Leggi Giulie ad Adriano, Napoli, 1999
Del Giudice, Dizionario Giuridico Romano, Napoli, 2000